Il sacco del curdo

 

NESSUNEIDE

 

Nonno con gli Argonauti fece il viaggio

sul buio orlo del mondo, fra i prodigi del mare, fino ai nove

anelli del dragone, intorno al totem con il Vello,

neri e oleosi come tubi di caldaia –

 

e il babbo a Troia vide la guerra delle guerre,

padiglioni e bandiere, cocchi infranti nel canneto

e roghi di Pelidi, e, dall’oblò nel naso del Cavallo,

la Città ignara, sotto, come il presepio della cattedrale –

 

nonno con gli Argonauti, il babbo a Troia, ed io?

senza uno straccio d’avventura io, senza

un velo di leggenda, oscuramente

cacciato in questa sacca della Storia, in questa secca del destino,

 

in quest’epoca folta ma nana come un bosco di bonsai,

io – gioco all’Enalotto, ho la passione dell’astrologia,

seguo i gialli a puntate, ho preso una Clio a rate, e a volte batto

gli amici al flipper della pizzeria.

 

 

IL COMPRATORE D’ARIA

 

Siccome la bonaccia non s’incrina,

dalla strega di Odessa ho comperato

un’ampolla di vento, per sei braccia

di stoffa a righe e un macinino da caffè,

 

ma tornando alla nave scivolo, e in uno schianto

di vetri rotti subito mi trovo

faccia a faccia col cielo, dentro un rodeo di nuvole,

sballottato di brutta da questo a quell’azzurro

 

lungo spirali ardenti, per girandole assassine,

da pascoli di aurore a pergolati di tramonti,

da troni di zodiaco a calamai di eclissi,

da caserme di lampi al chiostro delle nevi,

 

finché in fondo ad un’ultima scellerata picchiata

                    non mi poso,

e guarda, è il mio paese, e sono, nudo, sul melo del parroco,

con tutti i cani della strada che mi abbaiano,

e con i baffi pieni di briciole di zenit.

 

 

 

IL SEICENTO OLANDESE

 

Li amo, i quadri olandesi del Seicento, dove accanto

a finestre coi vetri a rombi leggono biglietti,

o intorno a una tovaglia con ancora

i segni della piegatura pranzano,

 

mentre la cuoca, accesa nello spiraglio della porta, spenna

poderosa, e un marmocchio che le assomiglia insonnolito gira

lo spiedo, ed altri poi, laggiù, fra le piramidi di frutta,

e i mappamondi in legno, e le mandole,

 

sollevando il bicchiere o un pezzo degli scacchi o il re di picche

o sfilandosi un guanto, o avvicinando

la mano tozza alla gorgiera inamidata,

si voltano, ogni tanto, e chi li osserva osservano, beffardi,

 

pensosi, malinconici,

quasi tentati di soffiarci: “ Vedi?

di ore come le nostre, senza storia,

è fatta pure tutta la tua vita.”

 

 

 

CANZONE DELL’AMORE FELICE

 

Alle bellezze tue voglio impiccarmi gli occhi

per sempre ed anche poi, se il sempre ha un poi,

perché tu sei il catalogo del meglio,

e incontro a te s’azzoppano gli orgogli,

 

e ogni cautela cede come una cinghia marcia,

e il cuore intero si sbrina,

e tutte quante insieme indiavolate girano

le banderuole accese lungo il sangue.

 

La Nona di Beethoven? neanche esiste, se tu canticchi Yesterday

limandoti le unghie, e addirittura Monna Lisa

robetta sembra se, mentre mi rado, alle mie spalle

nello specchio del bagno affiora il tuo fulgore –

 

insomma, sei la squadra che ha vinto, anzi stravinto il mio Mondiale,

la mia Ferrari, tutta curve e fuoco,

l’Oscar dei miei ricordi, il Nobel dei miei sogni,

il Guinness dei miei baci, ma soprattutto sei

 

la mia donna, mia e mia, dovunque e qui,

per sempre ed anche poi, se il sempre ha un poi.

 

 

 

L’INDIFFERENTE

 

Non voglio appassionarmi, perché quando m’appassiono

la fronte mi diventa, non so come, trasparente

sulle alghe della mente,

                    e non mi va

che affiori coram populo il mio vecchio pescecane,

 

né che mi gemmi in pubblico il ciliegio preferito,

 

né che mi si arrovescino all’esterno le savane

dove leopardi col mio viso sbranano

notte e giorno gazzelle col mio viso.

 

 

 

IL GALLO DI CRITONE

O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio;

          dateglielo; non ve ne dimenticate.

                    Ultime parole di Socrate

 

Già il giorno dopo l’ho comprato,

il gallo da offrire al Dio medico,

per ringraziarlo di avere guarito il mio amico

da quell’accesso febbrile che secondo i filosofi è il vivere;

l’avessi sacrificato subito, o almeno

l’avessi scelto sbiadito, rachitico, rauco… macché:

sgargiante, tarchiato, stentoreo, un Apollo, un Carnera,

il Caruso della sua specie! e così, ce l’ho ancora

 

nel mio pollaio, che iroso e crestato governa,

sul mio steccato dal quale si staglia, supremo,

il bullo bello del mio pigolante Ginnasio,

l’Arconte Re della mia sciamannata Bulé –

che becco, e che artigli: se mai lo facessi combattere,

persino con tanti avversari in un colpo, di certo

li spennerebbe da solo più di quanto spennavano a Atene

qualunque persona perbene in trenta i Trenta Tiranni!

 

Ed è così macho, quel satrapo, che ogni sua concubina è ridotta

come le etere da un soldo le sere che sbarca allupata la flotta;

non mi stupisco se spesso, in un uovo innescato

con tanto vigore, due tuorli ci trovo… E se poi

canta, ah, è una bùccina, è l’olifante di bronzeo cristallo

che scarmiglia miglia di olivi, che snebbia i facchini ubriachi

nei pub del lontano Pireo, che riecheggia in novelli

peana fin su a Maratona, fin giù a Salamina!

 

E mi diano pure dell’empio, il mio amico e il suo Dio,

però non lo cedo, io, il mio gallo, a quel concistoro di marmi

che è l’Olimpo, o a quel Polo in penombra fra i dolmen che è l’Ade:

è sull’aia che rosola sudicia e fiera il suo posto,

fra il letame, che in mucchi più ricchi dell’oro di Creso

fuma contro la calce del muro, e la scala, che lungo

il fienile in rettangoli storti

eppure azzurrissimi afferra la luce.

 

 

 

PAESAGGIO NEL SILENZIO

 

Sul lago, nel tramonto, verso l’ora

che le oche ritornano alla riva –

quasi dipinti, noi le canne e i monti,

su un rotolo di seta della Cina –

tiepida l’acqua ai lati della barca,

la punta delle dita ci lambiva –

e così facilmente esistevamo

che forse neanche lasciavamo scia.

 

Sebbene il tempo creda di averci in sua balia,

davvero, a volte, un po’ immortali siamo.