Non c’era ombra d’uomo, eppure la sabbia era calpestata, e tutt’intorno a lui le voci parlavano e bisbigliavano, e piccoli fuochi s’accendevano e si spegnevano. Si parlavano là tutte le lingue della terra: il Francese, l’Olandese, il Russo, il Tamilo,il Cinese. Di ogni paese che conoscesse la stregoneria là c’erano alcuni abitanti, e bisbigliavano nelle sue orecchie…
R. L. STEVENSON, The isle of Voices
- I PADRI
- PRIMAVERA A VENEZIA
- NINNANANNA DEL LUNGO DOLORE
- INFANZIA DI LANCILLOTTO DEL LAGO
- CALIPSO
- APOTEOSI CON PAPAVERO
- IL CATTIVO LADRONE
- IL GENIO INNAMORATO
- NEI POMERIGGI CHE C’ERA IL SOLE
- RICORDI DI UNA VISITA IMPERIALE
- POETI DI BISANZIO
- DAL CUORE DELLA PERLA
- IL FIGLIOL PRODIGO
- UNA RAGAZZA
- VAGABONDI A SMIRNE
- LA COMARE DOMENICA
- SHAHRAZAD
- IL RITO
- MERAVIGLIOSITA’
- LUCI DI CAPRI
- ASCENSIONE AL PIREO
- RITRATTI DEL FAYUM
- ALL’ULTIMO DELL’ULTIMO
I padri di mio padre stavano con la terra,
seminatori nati, fondatori di culle e di granai: pesanti come aratri coprivano la donna, poi, complici del sole, a passi attenti risalivano i campi –
e i padri di mia madre, in quello stesso istante, si spingevano al largo, uomini svelti, in piedi fra nuvole e correnti, con i giubbotti stinti come l’azzurro di certi orizzonti sui due cuori, uno vero uno tatuato.
E adesso io qui mi frugo e non le ripesco, la formula del nodo, la profezia del vento, e forti ho sì le braccia, però non oso più quegli ampi gesti solenni, che trasformano in spighe la pazienza.
Senza i loro segreti, il sangue dei miei padri come un rimorso s’arrotola in me, irto di solchi che non riesco a incidere, arruffato di scie che non so liberare. |
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Dai caffè tutti i tavoli sono usciti nel sole,
qua brilla un cucchiaino, là una mano s’abbandona, e i gelati si sciolgono con grazia, e per un poco sembra un’amaca, il Tempo, e non una tagliola. |
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Mentre le mele si vanno dorando nel forno,
e il gelo, fuori, scortica stalla e silos,
mamma, raccontami ancora di quando scappammo in Egitto,
che mi tenevi avvolto nel vecchio scialle con le rose,
e al passo della mula io m’addormentavo,
stringendoti un vetro azzurro della collana,
e tu ad ogni fruscio smettevi di pregare
ed afferravi la sacca con dentro il coltello del pane.
Perché non arrivi stavolta, perché non arrivi, frontiera?
Arriva, e trasforma in ricordi di prossimi inverni fatica e paura;
in mezzo a due file di sfingi sicura raddrizzati, strada;
fra un obelisco e il lago spunta tranquilla, stella della sera.
Ricordo – un lago che non era un lago,
ma l’ennesimo incanto di Merlino;
quella dimora, accesa dove l’acqua
sembrava radunarsi più profonda;
tende che volteggiavano in ricami di corolle
per saloni con l’eco, ed un bagliore
d’argenti e di camini, e i fregi d’una pendola,
e un corridoio entrato chissà come in uno specchio;
e intorno a me, non c’erano che donne,
donne che per le scale proteggevano
candele con la mano che la fiamma dall’interno
inguantava di rosso, o dividevano
rami piumosi nei vasi, inclinando
la testa su una spalla, e poi s’avvicinavano
con un fruscio di scialli e un luccichio
di fermagli a baciarmi, qui, sugli occhi.
Coi miei capelli eterni le scarpe t’ho cucito,
guanti t’ho ritagliato nei miei sguardi più chiari,
non è servito a niente, è stato come offrire
tartine di rugiada allo Zar degli squali.
Ma sì, vattene, parti, e guardandovi in faccia rattrappitevi
e imputridite, tu e la tua Penelope,
sul vostro letto saldo, radicato nell’isola nocchiuta
dove le zecche assediano il botolo ansimante fra il letame,
e i mendicanti rissano in un tanfo di rognoni,
e zolle e cuori sono aridi e ingrati.
Troppa terra di quella ti pesa dentro, mai sarai immortale.
Ti scorderò. Sono una Dea. Ne ho tutto il tempo.
Né il Sole, quel frantoio di vulcani,
né quel mulino d’orizzonti, il Mare,
cercano più operai – che farne d’ora in poi
di queste braccia altere, di queste mani inquiete
che non terrò mai più mai più su te,
sulle tue spalle larghe come eclissi totali,
o sul tuo petto caldo, duro e caldo
come i massi dei moli.
Come sei bella, sei l’apoteosi
del morbido – il trionfo della curva –
l’arsenale del bruno – il mio Baedeker
lungo le coste della meraviglia.
Neanche se la mia linea della vita fosse lunga
come la Grande Muraglia, o la Via della Seta,
potrei trovarne un’altra uguale a te –
e nemmeno se il cielo, un 10 agosto, mi crollasse
in stelle sul balcone, come un idolo di ghiaia,
o se l’intero mondo non fosse più che un unico un immenso
prato di quadrifogli arreso alla mia mano,
potrei desiderarne una meglio di te.
Da quando sei arrivata, sono così felice
che credo di sembrare un perfetto imbecille, un mentecatto –
e balbetto, e m’incanto, me la rido da solo,
incespico in me stesso, e qualche volta addirittura tremo –
tremo come il papavero cresciuto
sull’orlo del binario
quando lo sfiora il rapido
dell’una e zero tre.
Ecco, siamo alle solite, quei due
confabulando fra di loro muoiono,
ed io in castigo, mela guasta, pecora
rognosa, io brutto ceffo, io Cattivo Ladrone,
bambino con più padri ma neanche un aquilone,
ragazzo senza chiacchiera, senza camicie azzurre né ragazze,
e infine l’uomo tetro, olivastro, che cena lì nell’angolo,
e a testa bassa arriva, e di soppiatto parte,
assassino eremita e ladro scapolo,
solo perfino in croce, colpa d’una battuta detta giusto
per sentirmi una volta almeno anch’io
nel coro, nel mosaico, uno di voi,
e per fingermi ancora un poco vivo;
ma il Rabbi ora s’è offeso, e a me non parla, e a lui badano tutti;
così ignorato crepo, impenitente, indegno – altroché Regno!
neppure un Vaffanculo di congedo!
Fumo obbediente sprizzo dalla lampada,
nebbia larga di spalle scalo l’aria,
in muscoli sontuosi, in triple sopracciglia mi raduno,
gigante sorridente m’inchino a te, signora.
Chiedi, Aladina, e sia che tu desideri
il diamante incastrato nel molare dell’Abisso,
o il baffo destro del Sultano, o torte all’anice,
o papaveri blu, tutto ti porto,
per riavvitarmi poi, di nuovo piccolo,
nel mio regno tortuoso, la conchiglia di rame che nascondi
sempre fra la camicia e il corpo, e dove
di attese, di sobbalzi ti vivo in riva al cuore
come le case gialle lungo la ferrovia,
o sul tuo sangue per un po’ esaudito
mi sdraio e sogno, come
sopra la Duna Grande.
Conoscevo un marito e una moglie
che ancora giovani avevano un sacco di figli,
eppure mai nessuno li aveva visti
abbracciarsi, o cercarsi la mano, o anche solo sorridersi
in quel certo qual modo, sapete.
Però, nei pomeriggi che c’era il sole,
lei si lavava i capelli, e tenendoli sciolti
come uno scialle aperto da spalla a spalla
e come una cascata lucida e scura giù per la schiena,
si sedeva sulla terrazza a lasciarli asciugare.
E allora lui si metteva su uno scalino un poco più in là
e restava in silenzio a guardarla.
Opere del Maestro non ne esistono
più, tutte perse fra sommosse e incendi:
ma restano le lodi quasi incredule di quelli
che le amarono in tempo, e che tramandano
titoli di raccolte già di per sé incantati: “Barche e Nuvole”,
“Visioni nella Festa delle Lampade”,
“Incontri sulla Strada dalle Persiane Blu”,
“Ricordi di una Visita Imperiale”-
e restano leggende, come quando lungo l’argine
i fiori di un ciliegio, per cadere, hanno aspettato
che finisse il paesaggio, e solo allora
scesero, pioggia lieve – e poi, resta il sospiro
fermato da un discepolo: “Sebbene
conosca ottantadue tipi di bianco,
non saprò mai dipingere quanto ho visto in giardino oggi al risveglio:
la luna e l’alba insieme sulla neve.”
Campanari di bolle di sapone,
arrotini di fiato e non di sangue, perse le abbiamo le antiche parole pesanti come carri di battaglia
o come navi cariche di grano, e sacre dalla nascita, perché in quel tempo gli uomini erano ancora capaci di udire il mare e il vento e il bosco, e il mormorio dei morti.
Quelle di adesso invece imbelli, labili, e tanto levigate che sono ormai consunte, l’un l’altra si ribaltano per futili meandri come fanno le tessere del domino,
finché l’ultima crolla sepolta nel tappeto o spenta su un mosaico, mentre il fan dell’Ippodromo, seccato per un break troppo lungo, impreca, ed un eunuco bistrato fissa cupamente il vuoto. |
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Tu dormi, io no, nell’ora freddolosa
del mattino che il mondo è grigio e bianco
come se lo guardassimo dal cuore di una Perla –
tu dormi, io no, ma tutt’e due sogniamo.
Non mi ricordo in che città di mare,
lungo il cielo correva un muro bianco,
nel muro c’era un arco, e dentro l’arco
c’erano ancora cielo e il Figliol Prodigo.
I jeans tutti sdruciti, occhi d’aprile;
la camicia a brandelli, ma sul petto una gran luce;
mi chiese da fumare; mi fermai; vele, nuvole, gabbiani;
si massaggiava un polso; mi disse che ero bella.
Calda come la schiuma del barbiere la sua voce,
come un oro feroce i suoi capelli,
e a un tratto s’è stirato, è scivolato giù dal davanzale,
non m’ha presa per mano, non m’ha chiamata, non m’ha fatto neanche un cenno
ma già mi trascinava: bazar, taverne, bische,
i vicoli del porto, lanterne che oscillavano,
una giostra di androni, un sabba di sussurri, un gorgo dove
ho perso un orecchino e ogni vergogna,
finché la notte non ci abbandonò,
leggeri come gusci succhiati, su una spiaggia piena d’echi;
ed era veramente il Figliol Prodigo:
anche il mio corpo, là, in brividi lo ha speso.
I diavoli, gli zingari li vendono, su un ponte
della Westfalia, a cinque scudi l’uno,
in certe bottigliette rossastre, opache, antiche,
ma per il tuo, non so quante dozzine d’Indie
darei, ad averle, per il tuo restio
e dispettoso diavolo privato,
che, come fanno invece quelli appunto degli zingari,
non trasporta in un battito di ciglia
da Cadice al Catai, non strappa oro ai crogioli
e bolle di futuro ai rauchi specchi
ed uve ai torvi inverni, eppure anch’esso ha i suoi poteri,
e così perentori, e così rari,
da incatenarsi addosso tutti i miei più magnifici pensieri,
come il piccolo pesce capace di bloccare,
solamente sfiorandone la chiglia,
le enormi caravelle in alto mare.
Ci scegliemmo l’anguria con quella stessa cura
che avremmo messo a sceglierci una nuora –
già nel mucchio brillava, come una stella in mezzo
a vili pianetini: magnifica, imperiale.
L’ho sollevata io stesso fra le braccia, e per un poco
è stata la mia sposa, come nel rito del passaggio della soglia;
tonda, fresca, polposa me la sentivo tutta addosso al cuore,
e credo che lei pure fosse contenta proprio come me.
E sorrisi parevano difatti anche le fette che ne nacquero,
larghi sorrisi accesi, dolci lune ahimè calanti,
su e giù davanti ai denti come sugose armoniche,
quanto rosso da mordere,
e anche quanta pietà per chi di bocca si fa uscire solo
menzogne o piagnistei,
invece di venirsene qui all’ombra insieme a noi
a sputare semini nell’azzurro al di là del parapetto.
Se lo scirocco sta sopra la Puglia,
non sviene anche la vipera? non suda anche la foglia?
e l’uovo frigge ancora fra la paglia,
e bolle pure il santo sulla guglia,
e negli anziani il senno s’ingarbuglia,
e ai giovanotti il sangue gli si sbriglia –
se lo scirocco sta sopra la Puglia,
che voglia di battaglia, che dolce voglia di battaglia che ti piglia.
E mentre l’aia splende bianca come una tovaglia,
chiusa nella sua stanza, la comare Domenica si spoglia,
lei che ha la morte mia dietro le ciglia,
lei che ha la vita mia sotto la maglia;
e mentre l’aria brilla come un coccio di bottiglia,
la comare Domenica, nuda sul letto, veglia,
oriente di vaniglia e pasta sfoglia,
musica misteriosa di conchiglia.
Con un fotoromanzo ti fai vento, bella figlia?
Non sai l’amore mio, come sventaglia –
ma tu, vuoi guadagnarti una medaglia,
vuoi parere l’ottava meraviglia,
le altre inciampano e ridono, tu sei quella lì ferma che non sbaglia,
mi lasci fra la soglia e la maniglia,
carne di quaglia ed anima di striglia,
faccia di stella e cuore di tenaglia.
Se lo scirocco sta sopra la Puglia,
frigge persino l’uovo fra la paglia,
bolle persino il santo sulla guglia,
solo il tuo duro errore non si squaglia.
Per salvarmi la vita, annodai fiaba
a fiaba, fughe di califfi a imprese di barbieri, e scoperte di forzieri verdastri a scherzi di folletti guerci,
e questo notte dopo notte, e sempre sapendo che in cucina mozzi di stalla, falconieri, astrologhi, tutti insomma, facevano scommesse su ogni aurora, e che sarebbero bastati uno sbadiglio e uno schiocco di dita a incenerirmi.
Ma a un tratto la mia voce udì se stessa, e quella strana specie d’eco smussò rischio e timore, come un fodero di madreperla incanta, addormentandolo, il pugnale, o l’edera ammansisce la grinta di una torre –
e ora prima di tutti le ascolto IO le mie storie, e in pace finalmente : il più crudele e sciocco dei sultani non mi ha più nelle mani sempre sudate e troppo inanellate :
ormai sono con Sinbad, col mio Sinbad, via, sul mare, o a un pozzo fra le palme col bel figlio minore del mercante, in un radioso vortice di nuvole e di frange il mio tappeto magico mi libera,
e tutte le avventure si contendono, predoni assetati, la coppa del mio cuore, e tutte le parole, persino quelle di cui ignoro il senso, schiave velate, suonano per me –
e così adesso a volte provo lo stesso brivido di Alì che, mezza frase appena, e vede fendersi il buio della roccia sull’oro sparso a vampe sotto il latte eterno e azzurro delle stalattiti,
e piano piano imparo l’identico sorriso del vecchio Imperatore della Cina che frontiere, tributi, e addirittura l’harem si scordò in un giardino pieno di usignoli. |
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Povera la sposina nella vigna:
le altre, mentre vendemmiano, proprio senza vergogna,
le chiedono l’innesto quanto dolce le è sembrato,
se era fresca l’acquata, se ha trovato quaresima o cuccagna,
e lei zitta, confusa, con la scusa dell’uva fra i pampini s’accuccia,
che il verde le nasconda le vampe sulla faccia,
e le altre piano piano spiegano il fatto com’è andato a loro,
e chi ha sposato il Gallo, e chi ha sposato il Toro,
e infine la più anziana la dice veramente così grossa
che per un po’ rimangono tutte curve in silenzio a ridacchiare –
solo groppe si vedono, maestose, sussultare
come le boe sul mare, lungo l’onda del filare.
C’è già il sole a beccarci, tu non starci a beccare caporale,
che a faticare allegre non si fatica male;
e come non capisci, alla tua età,
che donne scherzi e grappoli sono una Trinità?
E poi, si sa, la terra è femmina lei pure,
se sente queste cose la pigliano il languore, e il pizzicore,
e, dietro i nostri passi, già si protende calda, umida, lieta
incontro al nuovo seme come incontro a un vecchio amore.
Quando il Mar Nero era ancora una folaga,
e il Mar Bianco era solo un airone
già me ne andavo in cerca di te:
aprivo gli armadi, guardavo nel pozzo,
rovistavo serre e voliere,
o scoperchiavo, come un grande vaso
a fiori azzurri e gialli, la collina,
e poi come una tenda ad anelli scostavo la cascata –
però non ti trovavo, così ogni tanto morivo,
di delusione, credo, o di stanchezza,
non di disperazione – non disperavo, mai,
e infatti dopo un poco rinascevo
e tornavo a cercare.
E adesso t’ho incontrata, t’ho incontrata,
porzione mia d’amore valida per i secoli dei secoli
e tutta concentrata in una dose sola.
Ma forse me lo sono immaginato, non c’è stato
sul serio, questo giro vorticoso
di culle, di sarcofaghi, di rantoli e vagiti,
e allora è tutto ancora più festa, e più miracolo,
pensa che botta di fortuna ho avuto io, pensa!
io, che potevo nascere tre giorni prima d’Austerlitz,
zappettare e innaffiare in quel di Babilonia
qualche giardino pensile, farmi un goccetto alle nozze di Cana,
mangiare pane e olive mentre i Mori perdevano Granada
o i bucanieri prendevano Panama,
e vedermela brutta colpa del terremoto di Lisbona
o della peste dei Promessi Sposi,
io – sono stato invece
un tuo contemporaneo nella luce, in questa luce
che serena matura intorno a noi, per noi
le mele e le montagne, e che ci guida
le mani, benché siano così dense
di sangue e desiderio, in gesti trasparenti,
e lievi come garza, e lieti come i voli
che ritornano al nido.
Luce di Capri abisso orizzontale,
franano in pieno cielo vigneti incandescenti,
ringhiere arroventate s’impennano sul mare,
fuoco, vento, corallo, vertigine, ametista –
santi e profeti, lasciali parlare:
non esiste visione migliore della vista.
Io conosco una bettola, al Pireo,
che per le lingue è meglio di una Berlitz:
dopo un paio di sere, vaneggi in egiziano,
bretone, portoghese, fiammingo o marsigliese,
e le padrone, tre, sorelle, o forse
cognate, o neanche quello, se ti adottano
t’appioppano baciozzi schioccanti come quando
si spaccano pistacchi sopra un marmo,
e ti servono pesce con le olive,
e polipi affogati nella salsa,
e ciotole e terrine di qualunque cosa esista
al mondo di speziato e sfrigolante,
ma soprattutto vino c’è – e che vino!
sorsi miracolosi che te li senti scendere
come gnocchi di raso per la gola,
e quando ormai sono a destinazione
ti pare tutt’a un tratto di avere dentro al petto
come un cespuglio caldo, su cui volteggia un passero
giulivo, che ne spolvera con lena
la patina sbiadita dei pensieri.
Guarda, un altro bicchiere già colmo, lì, sul banco,
simile ad un occhione che infiammato d’amore ecco t’ammicca!
e ammira quelle gocce lungo il bordo,
pure come i rubini sul trono di uno Scià!
e goccia dopo goccia, bicchiere su bicchiere,
il passero ora è un aquila, e ti solleva – e visto da lassù
ogni dolore sembra così piccolo
da entrare in una scatola di spilli.
Campiti su pannelli che assomigliano a finestre
scheggiate e anguste come destini troppo brevi, da là fuori fissate, gente in silenzio giunta dai sobborghi, il nostro turno di festa a Palazzo, e noi
per nostalgia vorremmo scambiarla, la foschia che vi intride lo sguardo, e invece è delusione: già, persino la morte è stata avara, e né compensi ha dato, né risposte,
forse perché, tra gli ingredienti usati per le proroghe incaute contro il nulla, insieme a legno di cedro e gesso e albumi e cera d’api punica e olio di lino e mastice di Chio,
come in mezzo ai fioroni una cerasta, o lo stiletto nelle pieghe di una porpora, s’insinuano quei dubbi seghettati e quelle viscide speranze che torturano da vivi.
Così, mendichi timidi, rimanete accampati sulla soglia con quel poco di vostro che ancora pulsa e parla: gioielli che ora sembrano portafortuna ironici, capelli che fingono arricciati di rammentare balsami e non raffiche,
carnagioni franate dall’ocra e dall’avorio e dal rosato giù per le gamme dell’ombra, e infine gli occhi: enormi, spalancati – e che pure, non riescono a vedere nessuna scappatoia a questa ignara eternità. |
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ALL’ULTIMO DELL’ULTIMO ^ Top
Inghiottirla per forza, la mia parte di nulla, dovrò – ma sì, persino io morirò, anche sulla mia testa appassionata s’accanirà terrosa una tenebra –
ma proprio fino all’ultimo dell’ultimo, lo so, sarò pieno di voi, storie d’agosto, banchine lungo i fiumi di tutto il mondo, tende in controluce, tuoni che poi non piove, colori del castagno. |