Quando nell’Arca di colpo manca l’elettricità,
il buio ingigantisce scricchiolii, scossoni, paure,
e noi bambini affondiamo raccolti nel tiepido grembo del branco,
un isolotto di plaid e cuscini e gomiti e boules,
mentre i vecchi raccontano storie dell’ultima guerra, finestre oscurate
con le coperte, cantine di gente stipata come ora noi qui,
e fuori le bombe: “ Ah tremendi erano, specie gli inglesi…” “ Ah, gli uomini!
ecco perché il Padreterno un bel giorno si rompe e ci manda i Diluvî… ”
La candela, i sussurri, il calduccio: non sento più vento né pioggia e m’appisolo
e addio, salvo un’unica volta che nel dormiveglia ho intravisto due strani
bagliori e ho gridato: “ la tigre! ” e ci fu un parapiglia, quand’erano solo
la lucciola maschio e la lucciola femmina in cerca di un’ora di privacy.
Certo al mattino va meglio, e riprende il tran tran dello zoo,
dove vige la tregua dell’Arca, che persino i serpenti rispettano, quieti
nei loro box, penzoloni come bruni salami lucani,
o a ciambella sul pavimento come pneumatici alla rinfusa;
e Anna ama i gatti, e uno almeno vorrebbe tenerlo, al ritorno, chissà
se sua madre acconsente, e si offende se la metto a confronto coi lama,
non s’accorge che hanno le stesse sue ciglia, lunghe, dolci ( da grande,
credo, la sposerò ) e in più sputano come fa lei
se qualche cugino la stuzzica; quanto a me, preferisco i cavalli,
perché sembrano fatti soltanto di foga e criniera;
e chiamiamo la vacca Adalgisa come la nostra lattaia di casa;
e topi e elefanti li abbiamo alloggiati a prudente distanza fra loro.
E piove! ma la cicatrice del nonno da ieri predice che presto
smette, che forse domani fra i nembi e le folgori e i flutti
un Ararat ci apparirà, come la Statua della Libertà
agli antichi emigranti, e riavremo larga la luce e libera l’aria
e salda la terra, e pian piano saranno memoria
imballaggi e gallette ammuffite e gli strati di panni
da esquimesi per mesi di notte polare – nel sole,
seminudi selvaggi, di nuovo correremo sui campi già asciutti
a parte magari qua e là una pozzanghera, un fosso, nei quali varare
un’archetta di carta, per poi rimirarla dall’alto, imitando
l’intenerito o curioso o perplesso o impassibile Dio
in questo stesso stessissimo istante affacciato su noi.